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Miles Bennell: Niente amore, nessun sentimento, solo l’istinto di conservazione: non potete amare né essere amati, vero?

Dan Kauffman: Lo dici come se fosse una mostruosità, ma non lo è affatto. Sei stato innamorato altre volte, ma non è durato. Non dura mai. Amore, desiderio, ambizione, fede: senza tutto questo la vita è molto più semplice.


Miles Bennell: Molte persone perdono a poco a poco la loro umanità senza accorgersene. Non così, tutto a un tratto, dalla sera alla mattina… Ma la differenza è poca.

Becky Driscoll: Non tutti sono così, Miles.

Miles Bennell: Tu lo credi? Invece è vero. Ci si inaridisce il cuore, giorno per giorno. Solo quando dobbiamo lottare per difendere la nostra umanità, ci accorgiamo quanto valga…quanto ci sia cara.

TRAMA

Il dottor Miles Bennell rientra a Santa Mira dopo aver ricevuto un allarmante chiamata da parte della sua segretaria. Diverse persone sembrano infatti accusare strani sintomi che le portano a non riconoscere più propri cari, sostenendo che pur se all’apparenza identici e con le stesse abitudini di sempre, risultano tuttavia come svuotati di qualsiasi sentimento ed emozione. Paranoia collettiva o minaccia reale? Miles comincia ad indagare, e quando viene trovato un corpo misteriosamente privo di tratti somatici si fa largo l’ipotesi  più agghiacciante: la piccola città di provincia è suo malgrado divenuta il centro di un piano di invasione globale della Terra attuato da misteriosi replicanti, i quali, generati da baccelli di origine spaziale, si impadroniscono durante il sonno delle sembianze e dei pensieri degli abitanti per provvedere poi ad ucciderli e rimpiazzarli.

 

SINTESI

L’invasione degli ultracorpi è una tappa imprescindibile nell’itinerario cinematografico della science fiction. L’esperta regia di Don Siegel ha saputo sviluppare il tema classico dell’aggressione extraterrestre con un’inedita dose di suspense e lucidità analitica. Nel suo genere il film va considerato un autentico cult movie, a dimostrazione che l’ingrediente essenziale per una buona fantascienza risiede non nell’utilizzo degli effetti speciali, quanto piuttosto nella capacità di indagare i problemi reali della società e dell’uomo attraverso uno sguardo fantastico che ne evidenzi gli aspetti più significativi e rilevanti.

 

APPROFONDIMENTO

L’invasione degli ultracorpi rientra in quella ristretta cerchia di titoli che possono meritatamente fregiarsi dell’appellativo di cult movie: praticamente ignorato al momento della sua uscita nelle sale, questo autentico gioiellino della science fiction anni Cinquanta col passare del tempo è stato oggetto  di una potente opera di rivalutazione da parte di critici ed appassionati, la quale è servita a riportare finalmente alla luce gli indiscutibili talenti del film, tanto che esso viene oggi annoverato tra i migliori esponenti della sua categoria. Invasion of the Body Snatchers (questo il nome originale) fece il suo debutto in un periodo in cui l’industria hollywoodiana sbancava al botteghino grazie a kolossal come I dieci comandamenti, cosicché il clamore delle produzioni maggiori finiva sovente con l’oscurare la visibilità di quelle pellicole che erano invece girate con mezzi molto più esigui. Proprio questa fu l’infelice sorte che toccò all’opera diretta nel 1956 da Don Siegel:  il budget stanziato risultava modesto a tal punto che il regista, per arginare i costi, si avvalse del procedimento di ripresa in bianco e nero ed eliminò del tutto il ricorso agli effetti speciali; nonostante gli evidenti limiti con cui dovette confrontarsi, Siegel riuscì comunque ad allestire una messa in scena di grande coinvolgimento ed efficacia, grazie sia all’abile commistione di elementi fantascientifici, orrorifici e  tensivi, che allo stile asciutto con cui veniva narrata su schermo una vicenda che rimane ancora oggi di sconcertante attualità.

Il soggetto del film trae ispirazione da un romanzo di Jack Finney pubblicato nel 1955 (The Body Snatchers) ed il compito della sua stesura viene riposto nelle mani di Daniel Mainwaring, sceneggiatore di lungo corso che in questo caso ottiene anche  l’aiuto di Richard Collins e Sam Peckinpah (sebbene il ruolo svolto dagli ultimi due non risulti poi accreditato). Lo svolgimento del racconto ospita buona parte degli stereotipi narrativi tipici dei primi esemplari di science fiction cinematografica, come il tema dell’invasione planetaria condotta da ignote forze extraterrestri, la natura vegetale delle creature aliene (dopo La cosa da un altro mondo e prima de L’invasione dei mostri verdi), e la placida atmosfera di una insospettabile cittadina americana che improvvisamente scopre di essere l’epicentro di una terribile minaccia (le pellicole del genere sfruttavano di frequente ambientazioni come questa anche in quanto offrivano il vantaggio di mantenere bassi i costi rispetto alle più complesse ed onerose ricostruzioni sul set); nonostante faccia abbondante ricorso a cliché ormai collaudati, l’opera riesce in ogni caso ad esibire un’anima vivida e grintosa, permettendosi peraltro di introdurre alcuni spunti che risulteranno particolarmente rilevanti per la successiva evoluzione della categoria. Tra questi, vanno sicuramente annoverati l’ottimo intreccio narrativo, che mescola la formula fantascientifica di base con innovativi ingredienti in salsa horror e thrilling, e lo stile espressivo del regista, lucido e concreto, attraverso il quale egli descrive senza troppi fronzoli una vicenda dominata da un senso crescente di ossessione, restituendo al pubblico un’atmosfera tesa ed asfissiante la quale non trova di fatto paragoni nel suo genere.

Il messaggio veicolato dal film è d’altronde di quelli forti e taglienti: l’invasione descritta da Siegel risulta feroce e spaventosa in quanto stavolta (in misura ancor maggiore di quanto già accaduto in parte col precedente Gli invasori spaziali del 1953) non si tratta di un pericolo che aggredisce l’uomo dall’esterno, dal punto di vista della sua sopravvivenza materiale, ma è piuttosto un’insidia strisciante ed invisibile che muove internamente contro il nucleo più denso e caldo della persona: quello dei sentimenti. I replicanti generati dai bizzarri vegetali spaziali appaiono tanto mostruosi proprio perché celano il più assoluto vuoto emozionale sotto il guscio della loro apparente umanità. Esseri intelligenti e in tutto e per tutti identici a qualsiasi altro normale individuo; solamente, privi di anima. Come lo stesso Miles ha modo di constatare nel film: “Molte persone perdono a poco a poco la loro umanità senza accorgersene”. A riprova di ciò interviene più avanti una delle “copie”, la quale sentenzia: “Amore, desiderio, ambizione, fede…senza tutto questo la vita è molto più semplice”. E’ in simili momenti che l’opera di Siegel rivela tutta la straordinaria importanza e attualità del suo discorso: e non si tratta affatto di un discorso di matrice politico-ideologica, come invece diverse voci avevano affermato provvedendo ad interpretarlo in chiave ora anticomunista, ora antimaccartista; semmai, l’opera disegna una chiara parabola contro il rischio della “spersonalizzazione”,  lancia un allarme generale verso la perdita dei valori più autentici e genuini dell’essere umano. Evidente, a tal proposito, il senso dell’appello al “non dormire”, metafora di una coscienza umana che deve mantenersi vigile e attiva, per riuscire a difendersi dalla prospettiva di precipitare in uno stato di arida indifferenza. Si tratta dunque di una minaccia la quale nasce, a ben vedere, dalle maggiori profondità dell’uomo stesso, ed è proprio per questo motivo che risuona ben più terribile e concreta di qualsiasi altra anonima sfida proveniente da oltre i confini della Terra. A chiarire definitivamente la questione del significato del film intervenne comunque lo stesso Siegel, il quale anni dopo la sua uscita nelle sale ebbe modo di dire: Né lo sceneggiatore, né io pensavamo a un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un’abulica concezione della vita”. In questo senso, l’intenzione del regista viene perfettamente rispettata dalla pellicola, nonostante siano stati comunque introdotti dei cambiamenti non desiderati. In un primo momento, infatti, l’opera era stata concepita in modo tale da concludersi con una prospettiva tutt’altro che fiduciosa per il destino dell’umanità: il dottor Bennell avrebbe dovuto essere replicato lui stesso, per rivolgersi quindi allo spettatore tuonando che sarebbe stato lui il prossimo (“You’re next!”). Tuttavia i produttori, temendo che la scena sarebbe risultata eccessivamente disturbante per il pubblico, spinsero Siegel a girare un prologo ed una conclusione differenti, nei quali Miles riesce a fuggire in un centro vicino a Santa Mira dove è inizialmente accolto come un folle, per poi in seguito venir creduto  ed aprire in questo modo una possibilità di salvezza per la specie umana (un artificio di questo tipo, volto ad assumere una funzione di rassicurazione, aveva peraltro lontane origini nella storia della cinematografia, dato che era già stato imposto a Robert Wiene nel suo Il gabinetto del dottor Caligari del 1920).

Se un impianto registico tanto solido e ispirato costituisce il vero fiore all’occhiello della produzione, la prova del cast si dimostra da parte sua non meno valida: a spiccare su tutti è indubbiamente il persuasivo Kevin McCarthy (interprete di Miles Bennell), ma anche Dana Wynter (che impersona Becky Driscoll) e il resto degli attori se la cavano bene. C’è persino spazio per un piccolo cameo di Peckinpah nei panni di Charlie, l’uomo del gas. Per quanto concerne poi i curiosi baccelloni extraterrestri, essi costituiscono di fatto l’unico effetto speciale impiegato nella pellicola, la cui fattura -a dir poco artigianale- provoca oggi più simpatia che apprensione, senza comunque nulla togliere alla credibilità delle sinistre atmosfere esibite dal film. D’altronde, sebbene diversi altri titoli abbiano successivamente tentato di riportare sullo schermo la vicenda degli ultracorpi (Terrore dallo spazio profondo, 1978; Ultracorpi – L’invasione continua, 1993; Invasion, 2006), non è affatto un caso che nessuno dei remake sia riuscito a riproporre la formula dell’originale di Don Siegel con altrettanto successo. L’invasione degli ultracorpi si conferma dunque un piccolo grande classico nel suo genere, la cui visione resta ancor oggi un appuntamento irrinunciabile per qualsiasi appassionato. Eppure la pellicola è da consigliare anche a tutti coloro che sono abituati ad una fantascienza basata esclusivamente (o quasi) sugli effetti speciali: l’opera di Siegel costituisce in tal senso l’ennesima dimostrazione che in realtà sono sempre e soltanto le buone idee a fare davvero la differenza.

 

Titolo originale: Invasion of The Body Snatchers

Anno: 1956

Paese: USA

Durata: 80

Colore: B/N

Genere: Fantascienza

Regista: Don Siegel

Cast: Kevin McCarthy; Dana Wynter; Larry Gates; King Donovan; Carolyn Jones; Sam Peckinpah

Valutazione: 4 su 5 – Buono

 

Davide “Vulgar Hurricane” Tecce

 

“Prendete qualsiasi sentiero vi piaccia. Nove volte su dieci vi condurrà all’acqua. L’acqua ha qualcosa di magico che strappa gli uomini alla terra e li conduce oltre le colline, ai torrenti, ai fiumi, fino al mare. Il mare, dove ciascuno, come in uno specchio, ritrova sé stesso.” (Ismaele)

“Dal cuore dell’inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, o maledetta bestia!” (Capitano Achab)

TRAMA

Il giovane marinaio Ismaele, giunto a Nantucket in cerca di lavoro, si imbarca sulla baleniera “Pequod” insieme al suo amico indigeno Qeequeg. La nave è guidata dal folle capitano Achab, tormentato dal ricordo dell’aggressione subita anni prima da parte di Moby Dick, a cui deve la perdita di una gamba. L’intero equipaggio finirà coinvolto nella tragica caccia al bianco capodoglio di cui Achab vuole vendicarsi ad ogni costo.

 

 

SINTESI

Film dal forte gusto avventuroso e dalla possente messa in scena, Moby Dick la balena bianca è una buona trasposizione su celluloide del noto romanzo di Melville. Nonostante le difficoltà inerenti al processo di conversione di un testo letterario tanto ricco e complesso, Huston realizza  una pellicola epica e avvalorata dalle interpretazioni di un grande cast.

 

APPROFONDIMENTO

“Chiamatemi Ismaele”. Si apre in questo modo il celeberrimo racconto di Moby Dick, scritto dallo statunitense Herman Melville e pubblicato per la prima volta nel 1851 con il titolo originale The Whale. Un incipit straordinario, tra i più noti e meglio riconoscibili nell’ambito della letteratura contemporanea, il quale lascia già intuire la forma grave e solenne di un romanzo dall’incommensurabile valore artistico, non privo peraltro di una sua invidiabile ironia. Benché la vicenda monomaniaca che oppone il capitano Achab al titanico esemplare di capodoglio albino sia comunemente risaputa nel suo svolgimento, nonché facile a descriversi di per sé stessa, la fruizione dell’opera rimane nel complesso una sfida ardua ed appagante: il punto di forza del lavoro di Melville, ciò che lo rende un autentico Capolavoro, va individuato nel fatto che l’autore non si limita a narrare la semplice storia di una logorante ossessione, ma si spinge oltre i confini ordinari dell’esperienza umana avventurandosi egli stesso nel  mare aperto dell’ignoto, per realizzare così una coraggiosa e  sconcertante meditazione su grandi temi di natura etica, scientifica, religiosa, filosofica, artistica. Lo scrittore americano, dimostrando  una completa padronanza del mezzo letterario, sigla un romanzo multiforme e stratificato, ricco di approfondimenti e digressioni,  stilisticamente innovativo e destinato a fare da precursore al modernismo di inizio Novecento (con riferimento soprattutto a James Joyce).

Moby Dick è stato oggetto di diversi tentativi di trasposizione cinematografica (a cui occorre aggiungere alcune modeste versioni diffuse solo sul circuito televisivo): i primi due, risalenti all’epoca del muto – Il mostro del Mare del 1926, e Moby Dick, il mostro bianco del 1930 – appaiono di scarso interesse, principalmente a causa del fatto che deviano non poco dai toni e dalle situazioni del racconto originale; molto più fedele e rilevante appare invece la successiva, terza versione del 1956, diretta da un regista dalla mano sapiente e dallo sguardo acuto come John Huston. Prendendo atto dell’oggettiva impossibilità di rappresentare sullo schermo quel fitto intreccio di allegorie, riflessioni, approfondimenti tematici, che rendono la fonte letteraria tanto affascinante, il film risponde alla sfida concentrandosi sulla ricostruzione di una densa atmosfera, ottenuta sia drammatizzando la dimensione dell’eterno conflitto tra il capitano del “Pequod” e l’enorme capodoglio, sia enfatizzando  i risvolti psicologici dei personaggi di maggior spicco, senza per questo rinunciare mai al gusto più squisitamente scenico ed avventuroso del racconto. Le due ore della visione regalano infatti un’esperienza il cui ritmo ha il merito di risultare sempre e perfettamente sostenibile, per poi decollare nella  travolgente conclusione che dischiude un vortice tecnico-narrativo dal sicuro impatto emozionale. Fondamentale, in tal senso, l’apporto fornito dagli ottimi dialoghi, dalla fotografia di Oswald Morris, che impressiona sequenze marinaresche di indubbia efficacia, e dagli effetti speciali i quali, pur risultando facilmente datati agli occhi dello spettatore odierno, offrono comunque uno spettacolo godibile grazie soprattutto alle gigantesche proporzioni del bianco esemplare di leviatano che dà il titolo all’opera.

Una nota di merito particolare va poi dedicata  all’ interpretazione dei protagonisti: se in generale il livello di recitazione va ad attestarsi su livelli esemplari, esso riesce addirittura a sfiorare vette di eccellenza per quanto riguarda la tragica figura del capitano Achab, resa da un Gregory Peck quanto mai truce e statutario, e quella del comprimario Leo Genn, che veste in modo assai convincente i panni del timorato Starbuck, primo ufficiale a bordo del  “Pequod”; impossibile, infine, non citare il breve ma indimenticabile sermone di Padre Mapple, impersonato dall’istrionico Orson Welles il quale, durante la funzione domenicale, rammenta l’episodio biblico di Jonah parlando agli astanti dall’alto di un pittoresco pulpito scolpito a forma di nave (la cui realizzazione risulta molto vicina al testo di Melville). Complessivamente, il lavoro di Huston appare intelligente e rigoroso, indubbiamente meritevole:  consapevole delle specificità mediali che rendono impossibile citare le impressionanti digressioni presenti nella versione letteraria, il regista non ha tuttavia sacrificato la correttezza filologica del racconto originale, confezionando un’opera tanto solida quanto affascinante, capace di offrire ancor oggi un buon intrattenimento avventuroso dall’ampio ed epico respiro.

 

Titolo originale: Herman Melville’ s Moby Dick

Anno: 1956

Paese: USA

Durata: 116

Colore: Colore

Genere: Avventura

Regista: John Huston

Cast: Gregory Peck; Leo Genn; Richard Basehart; Friedrich von Ledebur; Edric Connor; Orson Welles.

Valutazione: 4 su 5 – Buono

Davide “Vulgar Hurricane” Tecce